John Barleycorn, 1913, copertina della prima edizione |
Molti sono i tiri che il whisky gli gioca: una volta, dopo tre giorni di ubriachezza, tenta di suicidarsi annegandosi e si salva soltanto per la sua eccezionale vigoria fisica; un’altra volta è spinto a una rissa in cui per poco non lascia la vita. Ma solo quando, dopo un’indigestione di lavoro materiale, decide di sfruttare il proprio cervello e si mette a scrivere, sente veramente il desiderio dell’alcool. Desiderio dal quale non riesce a liberarsi nemmeno imbarcandosi per una lunga crociera, nemmeno ritirandosi poi a vivere nella pace della sua fattoria: per troppi anni è stato in contatto con John Barleycorn per poter fare a meno di lui.
Mentre prima beveva per stordirsi, ora beve per sentirsi meglio, ma, a un certo punto, invece della solita energia fittizia, l'alcool gli da la “logica inesorabile, adamantina messaggera della verità al di là del vero”, l’antitesi della vita, tutta soffusa di cosmica tristezza.
Un miracolo lo salva dal suicidio, logico risultato di un simile stato d'animo; ed egli conclude sostenendo che, su centomila uomini, non uno è alcolizzato nato e che l'abitudine di bere non è un bisogno fisico, ma un'abitudine del cervello, puramente intellettuale. Forse verrà un'epoca in cui gli uomini relegheranno nel passato, insieme con i roghi delle streghe, le intolleranze e i feticci, anche, e non ultima tra queste barbarie John Barleycorn.
Il libro è qualcosa di mezzo tra un romanzo a tesi e una confessione autobiografica, attraverso cui ci è dato di seguire l'autore nelle tappe della sua vita avventurosa, resa tragicamente patetica dalla mancanza di una vera, profonda coscienza morale e artistica.
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