domenica 22 maggio 2011

Inventori della libertà

Colgo ancora l’occasione della notevole mostra Gli irripetibili anni ’60. Un dialogo tra Roma e Milano (qui il link della mostra attualmente in corso a Roma, e qui all’articolo di Laura Larcan su La Repubblica) per pubblicare un testo di Emilio Tadini del 1966 e trarre alcune considerazioni. Il testo di mio padre si intitola La falsa avanguardia e contiene una frase che fa pensare ad un pericolo: “(…) È come se certi artisti, esausti, rinunciassero al loro ruolo di “inventori della libertà”…” Si riferisce al rischio – e allo stesso tempo al fascino della Pop Art e dei suoi interpreti, in quegli anni – “…che molti artisti non cercano di prendere quelle immagini dall’arsenale dei linguaggi di massa per strutturale in nuovo racconto…”. Viene da pensare alle incertezze di oggi. A quelle di molti artisti di mercato che si accontentano di creare – di fatto – opere / link ipertestuali alle mode e alle logiche della comunicazione corrente. Link al mercato, che, del resto, chiede solo questo. Stabilità, chiarezza, semplicità e “quotazione”. Come in Borsa. Guai a dare l’idea che un brand rischi le proprie risorse su un prodotto che non nasca da un’analisi di mercato, dai bisogni e dalla visione del consumatore… In un contributo a questo blog, un artista che, a mio avviso, lavora proprio sulla strutturazione di un racconto – e amo quindi definire inventore di libertà – urla il suo ragionevole dolore. Giovanni Cerri scrive:
L’aridità degli ultimi decenni, ha fatto sì che la “comunità” artistica sia ormai fatta di tanti singoli che lavorano nel proprio studio, i critici si sono disabituati alle visite agli artisti, il tempo e la vita sembrano correre più veloci. (…) Ma ognuno è figlio del proprio tempo e occorre guardare avanti, la nostalgia intristisce a lungo andare. Quindi meglio rimboccarsi le maniche e agire comunque ! se la solidarietà e l’altruismo non sono più territorio dell’arte , rivolgiamo altrove la nostra umanità…
Perché solo altrove? Perché, semplicemente, non approfittare delle innumerevoli occasioni di incontro (anche nel web, naturalmente) per rigenerare energia collettiva? I figli degli anni Venti e Trenta – come Emilio Tadini – ci sono riusciti. Sono passati sotto le bombe, il nazifascismo e l’olocausto, hanno continuato nonostante le stragi e gli anni di piombo, hanno scavalcato il Muro di Berlino. Hanno fondato gruppi, correnti, riviste, manifesti, case editrici che vengono, oggi, citati e trasferiti nei libri, nelle enciclopedie, nelle guide museali. Hanno fatto storia con quattro soldi. Hanno fatto cinema accattonando metri di pellicola (come Rossellini). Man Ray, negli anni del dopoguerra, vendeva le sue opere a cento dollari (ad un abile mercante come Giorgio Marconi – che, non va dimenticato, è stato anche vero mecenate dell’arte). Io non vorrei che la risposta autentica alla domanda iniziale fosse, da parte di molti giovani ed emergenti artisti: perché è un’impresa senza successo. Proviamo a ripartire da vecchie domande. Forse le risposte saranno nuove. Forse si potrà ancora inventare la libertà. “Vogliamo impostare il discorso pittorico in funzione rivoluzionaria: che tenda cioè all’agitazione degli uomini e a provocare dirette domande e risposte. (…) Picasso, con Guernica, pone tale questione“. Morlotti e Treccani scrivevano nel ’43 e poterono essere pubblicati solo quattro anni dopo perché Quaderni Rossi non poté uscire a causa dell’arresto di De Grada…. Oggi servirebbe promuovere un’arte agit-prop? Illustrativa? Realista? Mera funzione della progettazione di ambienti? Lirica? Brut? Automatica? Figurativa? Astratta?…Proviamo a guardare oltre il Mercato, oltre alle domande che pone. Proviamo a guardare. “L’immagine che cerco sta come una specie di funambolo sulla corda tesa che separa la pittura cosiddetta figurativa da quella astratta”. Forse è proprio così. Ancora così, come rivelava Bacon. Forse i pittori non dovrebbero aspettare la visita dei critici nei propri studi, ma anticiparli. Dire e scrivere e riunirsi di più. Forse.
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Emilio Tadini, La falsa avanguardia, in “Successo”, maggio 1966, a. VIII, n. 5, pag. 105
Certi artisti della pop-art americana, quando hanno cercato di spiegare il significato del loro lavoro, hanno detto press’a poco così: «Noi non vogliamo fare niente di strano, dopotutto: pensiamo che le cose che stanno intorno a noi, oggi, nella vita di tutti i giorni, sono assolutamente degne di diventare gli oggetti di un nuovo mondo figurale, e è per questo che le mettiamo nei mostri quadri». E la figurazione pop si è abbondantemente servita di una massa di oggetti di uso comune, o “di vista comune”. Fatto così, il discorso sembra piuttosto semplice, tanto semplice e chiaro da suonare come un’espressione di innocente, e meritoria, fiducia nella realtà quotidiana che certe avanguardie artistiche precedenti avrebbero trascurato a favore di una serie di elaborazioni intellettualistiche. Se guardiamo con un po’ di attenzione una serie di immagini usate da molti artisti, americani e non americani, “pop” veri e propri o di derivazione, ci accorgiamo che moltissime di quelle immagini derivano da certi linguaggi visivi già stabiliti, e specialmente dal linguaggio elaborato e applicato nei mezzi d’informazione di massa: il linguaggio che viene usato nella pubblicità, prima di tutto, e poi quello che viene usato nella cronaca fotografica dei rotocalchi e dei quotidiani, e così via. Ora, queste immagini affollano il panorama visivo di tutti noi, ed è più che naturale che un pittore di oggi ne tenga conto nel costituire il mondo delle sue immagini. Ma il fatto è che molti artisti non cercano di prendere quelle immagini dall’arsenale dei linguaggi di massa per strutturale in nuovo racconto. Al contrario: sembra che essi cerchiamo disperatamente di ripetere o gli oggetti proposti dal linguaggio di massa o addirittura lo stesso meccanismo del linguaggio di massa. È una operazione, questa, che ha un senso soltanto se chi la compie ha coscienza della drammaticità della situazione, o almeno se “lo sente”, anche inconsciamente. Quando non agisce questa coscienza drammatica, le cose cambiano aspetto. Sembra che di colpo gli artisti abbiano un solo desiderio fondamentale: quello di inserirsi nella società in cui vivono, di celebrarla con quella incondizionata partecipazione a livello dell’immediato e senza complicazioni in nome della quale si sono realizzati i più sinistri orrori di tutta la storia dell’arte. È proprio questo stato di cose che complica il discorso sulle avanguardie attuali. Perché nel corpo della vera avanguardia – al di fuori della quale non è possibile esprimersi senza assumere il linguaggio come uno strumento letteralmente inutilizzabile, morto, come qualcosa che da strumento di espressione si è capovolto in meccanismo inerte capace solo di chiudere ogni possibilità espressiva –, nel corso della vera avanguardia, dicevo, si sta insinuando, una avanguardia falsa, essenzialmente reazionaria. È come se certi artisti, esausti, rinunciassero al loro ruolo di “inventori della libertà” e si abbandonassero con entusiasmo a un ottuso naturalismo illustrativo. I modelli sono diversi, ma l’atteggiamento è singolarmente simile a quello degli artisti che professavano un certo naturalismo piccolo-borghese e lo stesso realismo socialista. E identica è soprattutto la volontà di inserirsi in un tessuto di relazioni sociali ben stabilite una volta per tutte, di “integrarsi” felicemente in un complesso di convenzioni. È il vecchio mito infernale della “cara, semplice, solida realtà”. E probabilmente credere a questo mito può dare una specie di estasi. Si è davvero di fronte al mondo, finalmente! Emilio Tadini, Senza titolo, pennarello su cartoncino, 24x12, Archivio Eredi Tadini Si possono perfino celebrare gli astronauti – proprio come una volta si celebrava il signor di Montgolfier! –. Si può esaltare il sapore e il calore (e il colore) delle “cose vive”, attuali! È inutile sforzarsi di elaborare un nuovo linguaggio: non è forse vero che la nostra società ci offre una quantità di linguaggi modernissimi e attualissimi? E come è esaltante partecipare al trionfo della semplicità sulla complessità! D’accordo, ci si integra. Il figliol prodigo torna in società. L’intera realtà è fuori di noi, organizzata in una società, e da questa dimensione esterna ci arrivano tutte le ricette e tutti gli strumenti necessari per far funzionare senza intoppi la nostra vita e la nostra arte. Ma in questo modo un artista non fa altro che strangolare la propria vocazione alla libertà, e non si tratta soltanto della libertà di inventarsi un linguaggio, dalla libertà di fare tutte le possibili “stranezze” formali: si tratta dell’intera libertà di essere nel reale, di fare parte del reale, di fare il reale, rifiutandosi di subirlo. E nelle condizioni in cui viviamo oggi, con le prospettive che la nostra società, così vivace e affascinante, ci sta offrendo, subire la realtà, accettare le convenzioni, equivale a sottoscrivere una rinuncia formale ai propri diritti.

venerdì 20 maggio 2011

Fontana e Burri, Schifano e Tadini

Gli anni Sessanta: anni di grande fermento e ripresa artistica. Di rinascita… Anni nei quali, come mi raccontava frequentemente mio padre, Emilio Tadini, era normale, per un artista, fare la fame insieme agli altri, confrontarsi, frequentare tutte le gallerie e le inaugurazioni. Al bar Jamaica (tra gli altri tipici luoghi di incontro), nella zona dell’Accademia di Belle Arti, si riuniva una vera “banda” di ragazzi affamati e con le facce intelligenti. Ragazzi che avevano vissuto la guerra, il fascismo, i bombardamenti. Non di rado, qualcuno di loro si presentava con una macchia di unto sulla cravatta per fare colpo su una donna. La macchia era “finta”. Serviva a esibire la possibilità di un pasto abbondante che, nella realtà, non poteva essere stato consumato. Tra i ragazzi c’era anche un certo Dario Fo. Dario teneva sveglia la banda fino alle cinque del mattino. Ci riusciva con le parole e la lingua “sua”. Con i primi vagiti di un figlio “Nobel per la letteratura”: Mistero Buffo. C’era divertimento in quelle nottate: ci pensate? Riflettete a quanta voglia ci sia ancora, sotto. Sotto abiti firmati, sotto telefonini e telefononi, sotto quasi tutto. Penso che ci sia desiderio, sotto, di buttare qualcosa sottosopra. Di percorrere nuovamente quella strada. Di trovare cultura nella solidarietà umana. Intellettuale. Qui di seguito, oltre a citare la grande esposizione che è già in corso, a Roma, e al titolo di Repubblica, riporto un testo di Emilio Tadini, “L’autenticità di Schifano” (in “Successo”, febbraio 1966, a. VIII, n. 2, pag. 105) che trovo interessante e utile a evidenziare quanto quegli anni Sessanta fossero “belli”, in una parola. Un artista scrive di un altro artista. ….e si scambiavano continuamente opere tra loro, i pittori e gli scultori! E ci credevano! E le gallerie erano piene zeppe di gente che discuteva animatamente…. C’è bisogno di un altro Sessantotto per produrre quel “clima”? E’ sufficiente che cambi governo? Sarà abbastanza, un sindaco nuovo? C’è la crisi? Quando finiremo le lacrime tornerà il sole? (Si chiede questo proprio il sottoscritto Francesco Tadini, che è stato – in parte meritatamente - in carcere, che vive attualmente agli arresti domiciliari …e che ha voglia di cambiare molte cose, per il futuro …ma per chi vuol saperne di più c’è un altro Blog: al link FRIPLOT ) Come potete leggere al sito ufficiale della mostra: La mostra “Gli irripetibili anni ‘60. Un dialogo tra Roma e Milano” intende raccontare il ruolo fondamentale delle interazioni culturali tra Roma e Milano tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, individuando in esse l’epicentro creativo delle nuove sperimentazioni e ricerche al di là dell’arte codificata. L’esposizione, a cura di Luca Massimo Barbero, sarà al Museo Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, dal 10 maggio al 31 luglio 2011 e successivamente si trasferirà a Milano dal 7 settembre al 20 novembre 2011 negli spazi espositivi di Palazzo Reale. Fontana e Burri, Schifano e Tadini la rivoluzione dell’arte-spettacolo Dal 10 maggio al 31 luglio centosettanta opere al Museo Fondazione Roma (link all’articolo on-line) … “Oltre centosettanta opere testimoniano le personalità che hanno animato le due città, in bilico tra l’eredità più dissacrante delle avanguardie e l’anticipazione delle ricerche concettuali, passando dalla provocazione della “tabula rasa” del monocromo al virtuosismo optical e cinetico, fino alla Pop Art. Un’arte-spettacolo che trovò in alcune gallerie “illuminate” il loro vitale palcoscenico” ____ ____ Emilio Tadini, L’autenticità di Schifano, in “Successo”, febbraio 1966, a. VIII, n. 2, pag. 105 Anche nel campo della pittura, le idee, e le immagini, circolano oggi molto rapidamente. È un giro che qualche volta diventa addirittura vertiginoso. Gli effetti di una “esplosione” che può avere luogo, ad esempio, a Nuova York o a Londra, vengono registrati immediatamente a Parigi, o a Roma, o a Milano. Ci sono le mostre, le fotografie, i servizi sulle riviste specializzate e poi persino sui rotocalchi. E questo tumultuoso fluire dell’informazione porta indubbiamente a tutta una serie di conseguenze, contribuisce alla formazione, dovunque, di una situazione particolare. Non mi sembra proprio che sia il caso di deprecare questo stato di cose, di dire che in sostanza tutto ciò causa soltanto una più rigogliosa produzione aridamente manieristica. Prima di tutto il fenomeno, come qualità, non è affatto nuovo. Basta sfogliare qualsiasi storia dell’arte per rendersi conto dell’importanza che in ogni tempo ha avuto la rapida circolazione delle idee, della vivacissima disponibilità ad ogni autentica invenzione sempre dimostrata dagli artisti. Tutta l’arte europea si è fatta e sviluppata in un contesto di scambi, di acquisizioni, di relazioni ininterrotte. Gli scambi tra i diversi ambienti in realtà esistono. I loro frutti sono visibili nelle opere di ogni giovane artista di un certo valore. Naturalmente anche nelle opere dei giovani artisti italiani. Ed è giusto che sia così. A questo punto, però, si fa molte volte un errore critico piuttosto grave. Ci si limita cioè a rintracciare furbescamente le “fonti” e le si dichiara quasi con l’aria di accusare l’artista di essere solo un imitatore: quando non si parla addirittura e sbrigativamente di manierismo, di frettolosi tentativi di adeguarsi a una moda. Certo, ci sono pittori e scultori giovani che commettono queste colpe: ma sono gli stessi che in un’altra situazione avrebbero ripetuto manieristicamente un vecchio canone provinciale. Per i migliori bisogna per forza fare un discorso diverso. Bisogna riconoscere loro il pieno diritto di assimilare le esperienze nuove, prima di tutto. E poi bisogna essere capaci di mettere in luce i casi in cui un artista sa assumere una serie di valori espressivi attuali e sa organizzarli in una struttura personale – e magari sa addirittura elaborare una serie di valori nuovi, tali magari da potere di pieno diritto essere reinseriti in quella vasta circolazione di idee e di forma di cui abbiamo parlato all’inizio, per agire a loro volta in un contesto più ampio. Mi sembra che sia nella pittura di Mario Schifano (che ha recentemente esposto alla “Odyssia” di Roma e al nuovo “Studio Marconi” di Milano) si realizzi proprio una situazione di questo genere. Una certa esperienza americana – vissuta d’altra parte anche direttamente da questo pittore – è stata certo molto importante per la formazione del primo periodo della sua pittura. Ma nei quadri più recenti, e in questi esposti a Roma e a Milano, Schifano ha dimostrato di possedere un linguaggio del tutto personale, e di sapere organizzare strutture narrative e liriche direttamente riferite ad una situazione ben precisa. L’immediato clamore visivo di certa arte “pop” non ha più nessuna conseguenza manieristica, in questi quadri. Qui c’è la ricerca di una oggettività limpida, che sia convincente e inquietante esattamente nello stesso momento. Certi elementi fanno pensare addirittura a un ricupero attivo e vitalissimo di quella simultaneità e di quel dinamismo che furono portati nella pittura contemporanea dal futurismo italiano. E l’autenticità della pittura di Schifano la possiamo verificare poi nella immediatezza e nella vivacità con cui ci si rivela in queste tele il tono particolarissimo della sua “natura” di pittore: sostanzialmente in quella alternativa di fervorosa invenzione ottica e di liberi abbandoni lirici, di ironia a di emozione, di secchezza e di fervorosa partecipazione all’effusione intima dell’immagine. La coscienza di una nuova ottica, assolutamente attuale, non rischia insomma di irrigidirsi qui in una proposta sommaria, ma si concretizza di continuo in una nuova disponibilità del sentimento, nella vivacità di nuove reazioni intellettuali. Ed è proprio su queste basi che Schifano può moltiplicare le sue invenzioni. * In questo Blog di Francesco Tadini – che cura l’intero Archivio Eredi Tadini – verranno create delle pagine Opere e Testi che conterranno anche inediti di Emilio Tadini.

lunedì 9 maggio 2011