sabato 17 settembre 2016

Giona nell'Antico Testamento e nelle comunità cristiane primitive

Giona
Giona in un affresco nelle Catacombe
dei Santi Marcellino e Pietro, Roma
Giona: il Profeta nell'Antico Testamento e nelle comunità cristiane primitive. Personaggio biblico, Giona è protagonista della breve libro dell'Antico Testamento che porta il suo nome. È una storia meravigliosa quella del Profeta che, come tutti sanno, visse tre giorni nel ventre di un pesce (la Bibbia, non dice che fosse una balena!) Il cui significato è ricco di grandi insegnamenti. Si doveva raccontarla, questa storia, circa nel secolo VIII avanti la nostra era, nei ceti popolari d'Israele, dando ad essa il significato di una promessa: Dio che aveva strappato Giona alle viscere del mostro non avrebbe protetto anche il suo popolo, non l'avrebbe pure strappato al mostro assiro. A inghiottirlo?

Giona
Giona nella Cappella Sistina,
dipinto da Michelangelo
Ma se ne può trarre anche un altro insegnamento. "Alzati, aveva comandato il signore, va a Ninive (tra le più note città antiche, posta sulla riva sinistra del Tigri, a Nord della Mesopotamia), la grande città, e predica contro di essa! Avvertila di cambiare costumi, altrimenti io distruggerò!".
A parte il fatto che l'impresa era tanto piacevole quanto andare a offrire uno zuccherino a dei leoni, l'ordine di Jeova indicava segretamente il Profeta: come? Andare a rivelare la verità soprannaturale a quel popolo sanguinario e sterminatore!. Per questa disobbedienza Giona fu punito. Così Dio volle insegnare l'universalità della sua parola e che a tutti gli uomini è offerta la salvezza. Giona, obbedendo infine al comando di Dio e recandosi, nonostante tutto, dagli odiati Niniviti per portar loro una parola di misericordia, non è perciò, in anticipo, un testimone di Cristo, il messaggero del "perdona al tuo nemico"?
Questo Giona uscito dal ventre del pesce il terzo giorno, non è, più chiaramente ancora, l'annuncio di colui che, pure il terzo giorno, sfuggirà al mostro del sepolcro, nella luce della Resurrezione? "Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra." ( Nuovo Testamento - Matteo XII,40)
 E il "segno di Giona", citato profeticamente da Cristo (Matteo, XIII,39; Luca, XI,29) farà celebre questo personaggio nelle comunità cristiane primitive: nelle catacombe, sui sarcofaghi delle prime generazioni, si vedrà molto spesso un mostro, una specie di fantastico serpente di mare, dalla cui bocca esce fuori un piccolo uomo nero, che è l'uomo di Dio.

venerdì 16 settembre 2016

Aronne, Mosè e il vitello d'oro

Aronne
Aronne, Mosè e il vitello d'oro. Fratello e compagno di Mosé nella liberazione nel governo del popolo ebreo e primo sommo sacerdote del Vecchio Patto (vedi Esodo e Numeri, I-XX). Ricco di qualità appariscenti – presenza solenne, parola forbita, efficace eloquenza – Aronne era l'uomo ideale per il compito quasi puramente rappresentativo riservatogli a fianco del vero capo: ma a queste doti univa anche autentiche virtù – come uno schietto riconoscimento dei suoi limiti e un arrendevole docilità - che ne facevano un compagno davvero prezioso per il grande condottiero da lui coadiuvato con inesausta e fervida fedeltà, rafforzata anche dalla consuetudine del comune lottare e soffrire.

vitello d'oro
L'adorazione del vitello d'oro
di Nicolas Poussin
Tuttavia tanta vicinanza rattrappisce nel contrasto con la sua figura di buon mediocre in proporzioni così modeste che talora rischiano di sfiorare il grottesco. Questa è spesso la sorte dei piccoli sui quali si ferma la compiacenza dei grandi: che si sentono riposare sulla loro semplice intimità e perciò li cercano e li amano con l'abbandono persino nelle loro debolezze e i loro errori che sopportano con inconsueta clemenza; mentre, naturalmente, non sempre riesce i piccoli di fondere perfettamente l'ammirazione e l'amore per chi li fa così inopinatamente oggetto delle proprie predilezioni, e soprattutto ben difficilmente riescono a mantenersi a un livello, per le loro stature, troppo innaturale.

Così Aronne conobbe dei fugaci momenti di superficiale infedeltà verso il suo grande collega e amico, come quando si unì alle critiche di sua sorella Maria contro di lui; ma soprattutto rivelò la sua congenita debolezza quando, impaurito dalla sollevazione del popolo che credeva Mosè consumato dal fuoco di Dio sul Sinai, acconsentì a fondere il vitello d'oro e a divenire il goffo ierofante aggravando, anzi, con il suo zelo dissennato la secessione religiosa di Israele. Era una colpa gravissima, eppure non si legge che egli ricevesse un sol rimprovero da Mosè. La sua presenza della resto giovava incontestabilmente a salvare questi dalle accuse di tiranno che più facilmente avrebbero potuto bersagliarlo se fosse stato solo al governo del suo popolo; e la sua perdita, alla vigilia di iniziare la conquista della Terra Promessa, fu assai più, per il liberatore di Israele, della perdita d'un prezioso anche se umile collaboratore: fu la perdita di un autentico fratello spirituale.

Mare e Sardegna di David Herbert Lawrence - libri di viaggio

mare e Sardegna
Mare e Sardegna, David Herbert Lawrence
Libri di viaggioMare e Sardegna di David Herbert Lawrence. Titolo originale Sea and Sardinia. Pagine di viaggio dello scrittore inglese David Herbert Lawrence (1885-1930), pubblicate nel 1921. Ci appare qui la rude terra di Sardegna, non barbara ma indomita sotto l'impronta che l'uomo le ha dato. Anche i sardi sono chiusi, pensosi, con una vaga malinconia in fondo allo sguardo: forse perché il vincolo della società li stringe in quelle piccole comunità che sono i loro paesi, forse perché sentono il peso della propria comune solitudine. Come quegli uomini che Lawrence ci descrive in una trasandata osteria di Sorgino, un piccolo assembramento di miserabili case, appollaiato nel gelo degli alti monti.

Tra questa gente della Sardegna la figura più interessante è quella di un girovago, un giovane intelligente, che nasconde sotto la sua spavalda familiarità un certo senso di vergogna, sentendosi vagamente miserabile e bastardo, separato come è e tenuto a distanza dagli altri che hanno una vita più ordinata. Pittoresco è l'effetto delle maschere per le vie di Nuoro: serpeggiano in quella marea di personaggi camuffati un senso di allegria di uno spirito caricaturale spontaneo e vivace che danno piacere a chi guarda, così lontani dal gusto spettrale del tradizionale carnevale veneziano.

E magnifica di colore è la descrizione della processione, che si snoda lungo la strada rivelando la ricchezza e l'armonia dei costumi. In tutta l'opera Lawrence spiega così una vitalità descrittiva incomparabile, dandoci l'impressione di penetrare nel cuore dell'argomento, di rinnovare in certo modo il senso delle genti e dei paesi, in cui egli si compiace di vedere le viventi prove di quel programma di primordiale naturalismo tanto caro alla sua intelligenza.

martedì 13 settembre 2016

Bernadette Soubirous di Franz Werfel, da Lourdes al romanzo

Bernadette
Bernadette
Bernadette Soubirous di Franz Werfel,  da Lourdes al romanzo. La Nostra è la protagonista del romanzo Il canto di Bernadette di F. Werfel (1890 – 1945). Esso si ispira alla figura di Bernadette Soubirous (1844 – 1879), la pastorella di Lourdes a cui la Vergine, sotto l'aspetto di una signora bellissima, apparve ripetutamente nella grotta di Massabielle. Questo personaggio di Franz Werfel attesta un'acuta intuizione dell'elemento affine che ricollega il mondo religioso a quello artistico. In più punti dell'opera ci sono precisi richiami a questa vaga analogia.

Bernadette Soubirous
Bernadette Soubirous,
grotta di Massabielle,
foto del 1863
Con cauto linguaggio che evita un deciso atteggiamento razionalistico Franz Werfel osserva una volta: "alla piccola Bernadette è riuscito ciò che riesce soltanto ai più grandi poeti: quello che i suoi occhi vedono per grazia del cielo, circola fra la gente del suo popolo come una realtà". Ecco una considerazione che spiega il rapporto tra il fatto religioso e la creazione artistica. L'autore insiste sempre sulla immaginazione estremamente vivace di Bernadette, sulla sua innocenza del tutto candida, sul suo stupore di qualità estatica. La mente della fanciulla è chiusa alle speculazioni astratte. Quando suor Marie-Thérèse Vauzous la interroga sulla Santissima Trinità, Bernadette, che è la maggiore ma la più immatura della classe, non sa che cosa rispondere. La parola presepio, però, esalta subito la sua fantasia che evoca l'immagini nitide e pittoresche.

La prodigiosa forza spirituale di Bernadette dipende dalla perfetta fusione di una immaginazione fervida con una fede vigorosa. L'agente delle imposte, Estrade, "non riesce a comprendere la strana potenza con la quale questa ottusa figlia dei Pirenei con ogni suo sguardo, ogni suo passo, ogni suo gesto, dà vita e realtà a ciò che non esiste". Il segreto di tale potenza e la intensità della sua vita interiore. La realtà si identifica per lei in un impulso d'amore verso la misteriosa e bellissima Nostra Signora di Lourdes. Bernadette non indaga mai chi sia, né si domanda dei perché: lei vive, ama, gode. La fiamma la trasfigura anche fisicamente. La madre, dapprima incredula e sordamente irritata contro la figlia che le procura, col suo estatico contegno, molte noie, osservandola durante un'apparizione, esclama: "quella non è lei… Quella non è Bernadette… Non riconosco più la mia bambina…"
Gli incontri con la Signora mutano poco a poco il suo aspetto esteriore. Indifferente a tutto, lei è sensibilissima e risoluta nell'ambito del suo mondo: di fronte alla Bellissima, la sua indomita volontà si esplica, si intende, unicamente sotto il rapporto che intercorre tra la più eccelsa imperatrice e la più umile ancella.
Bernadette trapassa dall'estasi al languore, al deliquio. Un accenno di benevolenza da parte della Signora la esalta, il sospetto della sua disapprovazione da abbattere: la vicenda di questi sentimenti non altera solo l'anima, ma anche il corpo, tanto grande è la tensione di Bernadette. Essa agisce come guidata da voci interiori, i suoi gesti acquistano una solennità rituale, anche negli atti più comuni: un segno di croce, la recita della preghiera, un inchino.

A volte Bernadette e si trasferisce (in modo inconsapevole) in quella fase primordiale - per così dire mitica - in cui il culto spontaneamente nasce, come quando è la bacia la terra per esprimere la soddisfazione di aver capito la Signora. "Era un cerimoniale che avvicinava spiritualmente al divino con tale potenza che al suo confronto una solenne messa cantata diventava una vuota pomposità".
Sgombra d'ogni superbia e vanità, la sua mente va diritta al segno. "La sua logica, poggiata sulla potenza persuasiva dell'amore" confuta i dotti, laici e religiosi. L'alone mistico che avvolge la sua umiltà diffonde la luce della grazia e crea l'aura del miracolo. Pur turbato, di quando in quando, da incubi terribili e fantasmi diabolici, il suo spirito si eleva in ultimo alla pura letizia, trionfa a poco a poco sullo scandalo, sull'irrisione, sull'odio, sulla miscredenza, e la sua gloria sale man mano dal tugurio paterno alla grotta di Lourdes, al convento di Sainte-Gildarde, per sfolgorare nella solenne cerimonia della santificazione in San Pietro.

Franz Werfel segue con mirabile perspicacia intuitiva i vari atteggiamenti psichici del personaggio Bernadette che resta sempre sospeso in una zona di confine fra la fiaba poetica e la leggenda sacra, conservando però i tratti di una creatura storica.
La verità artistica della figura dipende da un sapiente equilibrio di elementi eterogenei, proiettati sopra uno sfondo remoto tanto dalla introspezione psicanalitica quanto dall'oratoria edificativa.

John Barleycorn di Jack London - riassunto del romanzo autobiografico

John Barleycorn
John Barleycorn, 1913,
copertina della
prima edizione
John Barleycorn di Jack London - riassunto. Romanzo autobiografico americano di Jack London (John Griffith) (1876-1916), pubblicato nel 1913. L’autore narra la storia dei suoi rapporti con John Barleycorn – Giovanni Chicco di Grano – nomignolo con cui si personificano in inglese le bevande alcoliche e, specialmente, il whisky. Racconta come bevesse le prime volte non per desiderio o per gusto – perché, anzi, l’alcool gli ripugnava – ma per curiosità, dapprima, poi per spirito di socievolezza, perché amava il conforto che viene dall'osteria, perché “ovunque la vita batteva un ritmo più largo e possente gli uomini bevevano”, e perché “romanzo e avventura sembravano andar sempre a braccetto con John Barleycorn”.

Molti sono i tiri che il whisky gli gioca: una volta, dopo tre giorni di ubriachezza, tenta di suicidarsi annegandosi e si salva soltanto per la sua eccezionale vigoria fisica; un’altra volta è spinto a una rissa in cui per poco non lascia la vita. Ma solo quando, dopo un’indigestione di lavoro materiale, decide di sfruttare il proprio cervello e si mette a scrivere, sente veramente il desiderio dell’alcool. Desiderio dal quale non riesce a liberarsi nemmeno imbarcandosi per una lunga crociera, nemmeno ritirandosi poi a vivere nella pace della sua fattoria: per troppi anni è stato in contatto con John Barleycorn per poter fare a meno di lui.

Mentre prima beveva per stordirsi, ora beve per sentirsi meglio, ma, a un certo punto, invece della solita energia fittizia, l'alcool gli da la “logica inesorabile, adamantina messaggera della verità al di là del vero”, l’antitesi della vita, tutta soffusa di cosmica tristezza.

Un miracolo lo salva dal suicidio, logico risultato di un simile stato d'animo; ed egli conclude sostenendo che, su centomila uomini, non uno è alcolizzato nato e che l'abitudine di bere non è un bisogno fisico, ma un'abitudine del cervello, puramente intellettuale. Forse verrà un'epoca in cui gli uomini relegheranno nel passato, insieme con i roghi delle streghe, le intolleranze e i feticci, anche, e non ultima tra queste barbarie John Barleycorn.

Il libro è qualcosa di mezzo tra un romanzo a tesi e una confessione autobiografica, attraverso cui ci è dato di seguire l'autore nelle tappe della sua vita avventurosa, resa tragicamente patetica dalla mancanza di una vera, profonda coscienza morale e artistica.

domenica 11 settembre 2016

Pocahontas, chi è la protagonista del film Disney

Pocahontas
Pocahontas salva la vita a Smith
 disegno del XIX secolo
Pocahontas, chi è la protagonista del film Disney? Personaggio storico (1595-1617), che fu figlia del capo indoamericano Powhatan  - noto anche come Wahunsunacock - che governava un territorio che "inglobava" quasi tutte le tribù vicine alla regione del Tidewater dell'attuale Stato della Virginia. Grazie alla storia probabilmente apocrifa del capitano John Smith nella sua Storia generale della Virginia (del 1624), Pocahontas è diventata una delle figure più popolari della mitologia americana. Nella storia di John Smith, la bella fanciulla indiana salva la vita a Smith, capo dei colonizzatori di Jamestown, gettandosi sopra di lui proprio quando la scure del boia sta per abbassarsi, e persuadendo con il suo intervento il padre Powhatan a sospendere l'esecuzione.

Pocahontas
Pocahontas,
il monumento
a  Jamestown - 1922
Più tardi il personaggio reale sposò un altro dei colonizzatori bianchi, John Rolfe, e nel 1616 lo accompagnò in Inghilterra. La Pocahontas della mitologia divenne l'eroina di numerosi drammi del teatro americano; un "genere" iniziato dalla Pocahontas (1808) di James N. Barker che culminò nel 1855 in una farsa, "Pocahontas o la selvaggia gentile" di John Brougham. Ma l'eroina non è scomparsa dei libri di testo e di lettura per bambini. La sua importanza di personaggio consiste semplicemente nella sua importanza di convenzione letteraria: immagine che fluttua vaga nella mente.

Lei è il prototipo di tutte le successive ragazze indiane nella fantasia letteraria e dei film le quali amano uomini bianchi o ne sono amate – belle, gentili, timide ma capaci di sacrificio eroico; che uniscono l'intatto fascino della selvaggia con la carità di un'ipotetica cristiana. Ma il personaggio di Pocahontas vale meno della posizione morale e fisica, definita dalle primitive incisioni in legno, in cui la disposizione creativa americana preserva la sua immagine: la posizione dell'intervento con il sacrificio di sé.

Come gli atteggiamenti morali e fisici assunti per la mentalità europea, persino nel 20º secolo, dai personaggi del romanzo cavalleresco, così l'atteggiamento di Pocahontas che si slancia tra il boia e la vittima rientra, per gli americani, in un vasto repertorio di "modelli classici" a cui automaticamente ricorrono sia il corpo sia lo spirito ogniqualvolta essi "non sappiano che pesci pigliare"..

Infine, Pocahontas è stata la principessa protagonista del grandioso film d'animazione del 1995: il trentatreesimo classico Disney, la cui produzione - in parte - è stata realizzata in concomitanza con la produzione del film Il re leone. Nel 2005, per festeggiare il decimo anniversario dall'uscita del lungometraggio, la Disney ne distribuì anche un'edizione home video. Il 24 novembre 1995 Pocahontas uscì nei cinema italiani ed ebbe un successo mondiale rilevante. Il film d'animazione ottenne anche numerosi riconoscimenti e premi. Nel 1996 ricevette il Premio Oscar per la Miglior colonna sonora - ad Alan Menken e Stephen Schwartz - e per la Miglior canzone "Colors Of The Wind" a Alan Menken e Stephen Schwartz.

venerdì 9 settembre 2016

Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, riassunto

Il grande Gatsby
Il grande Gatsby
Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, riassunto e analisi. Il romanzo è del 1925, dello scrittore americano F. Scott Fitzgerald (1896-1940): uno dei più letti e intergenerazionali romanzi del Novecento. Una generazione di americani vide in lui l'immagine del suo convulso malessere. La generazione nata da quella, restia a riconoscere come sua legittima origine un'entità morale così inquietante, ha cercato di seppellirlo nella finalità del passato storico. Ma Gatsby definisce ben più importanti lineamenti di un paesaggio morale americano, i cui contorni sono ora meno chiari soltanto perché soffocati dalla vegetazione.

A 32 anni Jay Gatsby un misterioso ed elegante millenario con una casa favolosa vicino a New York. A 17 anni è James Gatz figlio di un povero contadino senza risorse del medio Occidente. L'immaginazione del ragazzo si finge un "universo di ineffabile splendore" in cui "Jay Gatsby" a figura di fascinoso eroe. Egli insegue il suo sogno spostandosi a oriente; si attacca a un milionario; si innamora di una ricca ragazza del sud, Daisy "la figlia del re, la ragazza d'oro… Sicura orgogliosa di sopra le brucianti lotte dei poveri"; si fa una fortuna come trafficante clandestino; deve cedere Daisy a un altro; cerca di riconquistarla; per la costante fedeltà a un vacuo sogno e a un'illusione sentimentale, innocentemente manda in frantumi l'illusione, il sogno e la sua vita.

In senso non soltanto geografico Gatsby viene dall'ovest: egli è un discendente spirituale del Natty Bumppo del Cooper, che, vagheggiando "l'ultimo e il più grande di tutti i sogni umani", si era rifugiato a Occidente di fronte alla violazione della verde terra vergine, e nella ritirata aveva portato con sé l'immagine sacra di un mondo nuovo in cui l'uomo fosse "per l'ultima volta nella storia a faccia a faccia con qualche cosa che corrispondesse alla sua capacità di meraviglia".

Attraversato il continente, raggiunta la costa del Pacifico, l'immagine affonda nello stagno della mente comune, dove diventa fantasia di recuperare ciò che è stato irrevocabilmente perduto; Il grande Gatsby va verso l'oriente, portando con sé nel ritorno una capacità di meraviglia che non ha niente di cui nutrirsi, fuorché gli orpelli che il denaro di un contrabbandiere può comprare.

Sotto la partita corrotta che egli deve giocare per attuare il suo sogno, l'innocenza del sogno rimane incorruttibile. Lo "straordinario dono della speranza" - che gli dona Francis Scott Fitzgerald - la sua "prontezza immaginativa" tra i personaggi del libro salvano lui solo dall'orrore e dal disgusto del narratore occidentale: "c'era in lui qualche cosa sbalorditiva, raffinata sensibilità alle promesse della vita".

Ma il sogno di Gatsby riflette, sulla sua immacolata, luccicante, concava superficie, le grottesche concave superfici del mondo che lo circonda; la sua solitudine nella società americana rispecchia l'isolamento morale degli "spostati" che la costituiscono. Nel suo grande fantastico palazzo, eretto in uno dei suburbi dei nuovi ricchi come una tenda di circo ambulante, e separato dalla città da "una valle di ceneri", egli dà grandi fantastici ricevimenti, a cui interviene, non invitata, la caotica folla della città: individui di ogni nome e di ogni stato sociale che hanno in comune soltanto la dissociazione morale di animali che non sanno che animali siano dei movimenti appartengano ai loro corpi, né in che giungla vivano.

Sul prato di Gatsby i loro visi, le loro voci avvinazzata, le loro figure barcollanti sotto l'hanno con le luci artificiali in un carnevale fantasmagorico in cui tutti i secoli e i paesi e i costumi e le maschere si mescolano per una notte. Ma il carnevale non dura una notte; non è l'orgiastico sfogo rituale dopo la formale coerenza dell'anno – non è un Martedì Grasso, nei una Notte di Valpurga – ma è la vita stessa di quell'anno e del successivo.

La figura misteriosa de Il grande Gatsby ispira loro bizzarri fantastici pensieri, che sono la disperata speranza che qualcuno, che qualcosa, in un universo dove sconnessi relitti di naufragio giacciono sparsi su una nuda spianata, abbia significato, consistenza, coerenza: abbia radici in qualche passato storico e morale: sia "reale”. Ma Gatsby di Francis Scott Fitzgerald è la figura della mascherata di un ragazzo, la sua casa un "enorme incoerente fallimento". E quando, già fatto a pezzi dal crollo del suo sogno, l'eroe è ucciso da uno sparo, la nota casa ingannatrice – casa di Gatsby e Casa del sogno americano di James Gatz – diventa una tomba su cui immacolati scalini bianchi un ragazzo ha scribacchiato una parola oscena.

domenica 4 settembre 2016

Ponzio Pilato, la vittima più famosa della politica?

Ponzio Pilato riceve Gesù,
da un dipinto di Duccio di Buoninsegna
Ponzio Pilato, la vittima più famosa della politica? Pilato, procuratore della Giudea (26-36 d.C.) al tempo del processo e della morte di Gesù è indiscutibilmente il magistrato romano più famoso. Cavaliere romano, di origine probabilmente sannitica ebbe in sorte il governo di una provincia – anche allora – difficilissima. I suoi sudditi non fecero praticamente niente per agevolargli il compito, ed egli, da parte sua, approfittò di tutte le occasioni per manifestare, anche in modo brutale, il suo disprezzo per i Giudei. Coinvolto suo malgrado nel processo di Gesù, i suoi interventi e la sua sentenza sono giudicati nei modi più vari. Certo, le pagine evangeliche che riferiscono i suoi colloqui con la folla urlante, con i Sinedriti astuti e tenaci, con Gesù, che dopo aver taciuto dinanzi a Erode si adatta volentieri a rispondere alle domande di Ponzio Pilato, rendono plasticamente il progressivo e rapido precipitare di una situazione che lo stesso Pilato pensava di tenere in pugno.

Egli è convintissimo dell'innocenza di Gesù; sa che i Sinedriti lo hanno  consegnato a lui per gelosia; egli è arbitro della sorte dell'accusato ma vede con dispetto stringersi intorno a lui la rete dei capi di Israele che gli impediranno di pronunciare una sentenza di assoluzione. Generalmente si è molto severi con Pilato, con il suo arrivismo. Lo si accusa di aver avvilito e tradito la giustizia di Roma, di aver gettato il fango sulla nobile figura del magistrato romano, cedendo alle intimazioni di una folla aizzata.
Il dovere di Pilato sarebbe stato di resistere a ogni costo e imporre il suo giudizio favorevole a Gesù. Non lo fece  perché temeva di compromettere la sua carriera dopo che i Giudei gli gridarono "di non essere amico di Cesare" perché difendeva Gesù che essi gli avevano presentato come un sobillatore.
Il Pascoli diede corpo all'"ombra di colui – che fece per viltade il gran rifiuto" identificandola con Pilato. Qualcun altro ha tentato un'apologia di Pilato distinguendo la sua posizione giuridica di "praetor" dalla posizione politica di governatore di provincia. La sua qualità giuridica ne esce piuttosto male in quanto il processo di Gesù mancò di un elemento giudiziario importante: l'escussione dei testi, ma forse Ponzio Pilato, dopo aver ascoltato Gesù, giudicò che non c'era luogo a procedere e quindi era inutile esaminare le testimonianze.

In realtà, Ponzio Pilato fu vittima della sua funzione politica, in quanto, come governatore di un paese soggetto del quale l'autorità centrale rispettava la fede e gli ordinamenti religiosi, era tenuto a dare il massimo peso al giudizio del Sinedrio, tribunale specializzato e riconosciuto. Finché hanno accusato Gesù di pretesi crimini che ledevano la maestà dell'Imperatore, Pilato ha facilmente sventato il piano dei Sinedriti, ma quando l'hanno messo di fronte a un'accusa squisitamente religiosa affermando che Gesù, dicendosi figlio di Dio, aveva gravemente violato la legge ebraica, Pilato deve dichiarare la sua incompetenza e accettare il giudizio del Sinedrio ordinando, in virtù dei suoi propri poteri esclusivi, la esecuzione capitale.

Il gesto che egli compì lavandosi le mani stava appunto a significare che la responsabilità della condanna non ricadeva su Roma, ma su Israele che aveva pronunciato un giudizio assolutamente "tecnico". L'accusa a Ponzio Pilato di non essere "amico di Cesare" poteva appunto significare che, non rispettando la decisione del sinedrio, Pilato violava la norma fondamentale dell'autorità centrale romana di rispettare la legge religiosa dei popoli soggetti. Certo, un Pilato che odia gli ebrei e che difende con ogni mezzo Gesù, il quale ai suoi occhi era in fondo uno della razza disprezzata; lo scettico – "ma che cos'è la verità?" – che si ostina a difendere un agitatore religioso, lascia molto pensare.
L'irritazione e il rancore con il quale Pilato risponde alla richiesta del sinedrio di modificare il cartiglio della condanna – "quel che ho scritto, ho scritto" – e la sgarbata risposta alla richiesta di porre le guardie al sepolcro dicono abbastanza fino a che punto Ponzio Pilato è certo di essere stato giocato dagli ebrei. La leggenda si è impadronita di Pilato e ha ricamato sulla sua fine, che si perde nell'ombra da quando Tiberio lo chiamò a Roma per render conto di una ennesima violenza contro i suoi sudditi. Chi lo disse suicida e chi ne fece un martire, e la contraddittorietà di questo estremo giudizio sembra continuare la perplessità che ancora ci coglie di fronte al famoso procuratore di Roma. Egli è assurto a simbolo di viltà, ma forse soprattutto la vittima più illustre della politica.

mercoledì 24 agosto 2016

Jacques il fatalista di Denis Diderot, il dubbio all'epoca della ragione

Jacques il fatalista e il suo padrone
Jacques il fatalista di Denis Diderot, il dubbio all'epoca della ragione. Il romanzo Jacques le fataliste et son maître viene pubblicato da Diderot (1713-1784) a Parigi nel 1796. Chi è questo personaggio fondamentale della storia della letteratura (e della filosofia)? Nulla di trascendentale, nulla di metafisico nel fatalismo di Jacques. "Noi crediamo di guidare il destino, ma è sempre lui a guidarci; e il destino, per Jacques, era tutto ciò che lo toccava o lo avvicinava, il suo cavallo, il suo padrone, un frate, un cane, una donna, un mulo, una cornacchia". La sorte della vita è nella stessa vita che evolve, in maniera ovvia e assurda, nel modo più fantastico e banale degli accadimenti imprevedibili a qualunque ora, giorno, settimana, mese… Ma è sempre giusta se specchiata nel destino che le è, dunque, immanente.

Denis Diderot, 1767,
ritratto da Louis-Michel van Loo
Un destino avventuroso e libero, fermato alla meta breve dei passi umani e conseguente solamente "a posteriori" nelle giustificazioni delle quali Jacques, il pragmatico razionalista, conforta la continua sfortuna dei corsi della propria esistenza. Tutto ciò che avviene deve avvenire. Dove va, Jacques il fatalista? Giacomo non sa nulla a priori e, del resto, non vuole saperne nulla. Egli parte da dove Candido arriva (primum, vivere), e si porta dietro, onesta come fosse un buon vino, quella vecchia saggezza di Rabelais che fu il piatto forte fonte di salute della Francia letteraria fino a Molière e a Beaumarchais.

Un po' Sancho e un po' Figaro, un po' Arlecchino e un po' Sganarello (personaggio comico di Molière), il servo Jacques di Diderot è un popolano dal fresco sentire e dallo sguardo sincero nel cui personaggio il Settecento spezzò più di una lancia per l'idea rivoluzionaria. Jacques il fatalista è un bonario panteista al quale appare "priva di senso la distinzione di un mondo fisico e di un mondo morale". Lui inventa l'universo in una versione semplice dove si possono reperire i motivi che ne costituiranno più tardi, fino a oggi, l'essenza unitaria, variata e resa più colorita dalle infinite reazioni umane.

Prima del Romanticismo e delle sue tempeste, prima di ogni moto coscientemente psicologico Jacques guarda la vita come "un gran nastro che si svolge poco a poco", in un ritmo calmo e, per così dire, naturale al quale non cercherà mai di opporsi. Pur tuttavia non va confuso con il semplicismo la sua perspicace lucidità di visione: è là che trovano risposte le 1000 e ancora 1000 domande di cui è fatto il personaggio del fatalista. Le domande possono essere sfumature – leggeri dubbi che contengono abissi di profondità – alle quali lui risponde con aforismi o paradossi. Ed è poi in una risata che Jacques acconsente, forse perché l'amaro non si senta nella sua voce. L'amaro della pura ragione? Jacques vive il senso profondo di un'esperienza compiuta – la storia del fatalista e l'ultima scritta dal vecchio Diderot – che arricchisce enormemente l'intera vita di un uomo, fatta di contrasti ed intimissimi dubbi proprio nel secolo che aveva voluto credere alla pura ragione.

giovedì 18 agosto 2016

Polifemo, Ciclope, figlio di Posidone nell'Odissea di Omero e nella poesia ellenistica

Polifemo - Galatea si presenta al ciclope. Pittura parietale, I secolo, da Pompei,
Napoli, Museo Archeologico Nazionale - fonte  Wikimedia Commons, foto Stefano Bolognini
Polifemo, Ciclope, figlio di Posidone nell'Odissea di Omero, nella poesia ellenistica e nella nuova commedia greca. Il più conosciuto - Polýphemos significa, in greco antico "che parla molto" - dei Ciclopi, che nella mitologia greca erano immaginati divisi dal mondo civile, e intenti a una vita primitiva di pastori (diversi quindi dai tre figli della terra e del cielo, chiamati anch'essi Ciclopi, aiutanti di Efesto nella sua fucina di fabbro e grandiosi costruttori delle mura "ciclopiche", i bastioni difensivi delle città del Peloponneso). Nel nono libro dell'Odissea i Ciclopi vivono in un'isola deserta di uomini e Polifemo se ne sta appartato anche dai suoi simili. È una figura grottesca e selvaggia che rinchiude Odisseo e i suoi compagni (divorandone qualcuno) nella sua spelonca. È famosa l'astuzia con cui Odisseo riesce a sfuggire al mostro, dopo averlo ubriacato e accecato; così i Greci si portano in salvo, all'aperto, nascondendosi in mezzo al gregge che esce per pascolare.

Il Polifemo di Omero è descritto con anche qualche nota umana – tra il comico e il patetico – quando si rivolge con parole affettuose, non senza tenerezza, alla più grossa delle sue pecore, il maschio che nasconde appunto Odisseo. Da questa avventura nell'Odissea derivano le successive peripezie del protagonista. Odisseo verrà perseguitato da Posidone per avergli accecato il figlio.

Odisseo e i suoi uomini accecano il ciclope Polifemo,
particolare da un'anfora proto-attica, circa 650 a.C.,
Eleusi - fonte Wikipedia Commons
Alla figura di Polifemo rimase sempre legata una certa comicità. Il ciclope fu un personaggio caro alla commedia greca antica e al dramma satiresco. Nel "Ciclope", il dramma satirico di Euripide a noi giunto, è ripetuta l'avventura di Odisseo: rinnovata e resa adatta alla scena con uno sviluppo drammatico più complesso e grazie alla presenza dei satiri allegri e scanzonati. Qui Polifemo è diventato più raffinato e mondano, più buongustaio che feroce: degna vittima del "moderno" Odisseo di Euripide.

Nella stessa epoca il mito di Polifemo fu modificato radicalmente – anche grazie all'influenza di nuove leggende popolari – fino al punto che nella nuova commedia greca e nella poesia ellenistica il ciclope è diventato un personaggio romantico (con accenti comunque grotteschi), musicale e innamorato della Nereide Galatea. La letteratura ellenistica si compiacque di mettere in versi lo sfortunato amore di Polifemo.
In un idillio di Teocrito Polifemo diventa un pastore innocuo e sentimentalmente preso dalla passione per Galatea: prova a conquistarla con doni, o con le altre arti degli amanti sfortunati super-ostinati.

Altri poeti dettero alla storia una fine tragica, in cui ricompariva l'antico ciclope di Omero: giacché Polifemo aveva un rivale, il giovane Aci, e lo uccideva un giorno lanciandogli un masso.
Nei poeti latini la storia di Polifemo talvolta è trattata come un semplice motivo letterario, derivato dalla tradizionale poesia bucolica, ma a volte si ravviva di elementi nuovi, popolari, sempre più diversi e lontani dal modello di Omero.

martedì 16 agosto 2016

Michela Ongaretti e Milano Arte Expo: i collaboratori del blog di Spazio Tadini

Milano Arte Expo
Milano Arte Expo - magazine online fondato da Francesco Tadini
Michela Ongaretti e Milano Arte Expo: i collaboratori del blog di Spazio Tadini. Da circa quattro anni è online una blogzine dedicata all'arte, al design, al fashion - o moda, che dir si voglia, alla fotografia e al lifestyle. L'idea, la prima pietra e i primi duemila articoli circa sono stati redatti e postati da Francesco Tadini, con il contributo della socia onoraria della Casa Museo di via Jommelli 24: la coreografa Federicapaola Capecchi. In seguito, con l'obiettivo di allargare gli orizzonti e, soprattutto, di "portare forze giovani" a Spazio Tadini e alle sue attività, si è deciso di pubblicare i testi di alcuni "contributori"di Milano Arte Expo. Perché, può domandarsi qualcuno, un centro culturale dedito alle mostre e agli eventi "a casa propria" pubblicizza con un portale web (che, per inciso, ha superato abbondantemente gli 800.000 visitatori unici) gli eventi, le mostre, le sfilate, i concerti, così come le settimane del design a Milano ... altrui?

La risposta sta tutta nell'idea che ci siamo fatti dell'arte - anzi, delle arti - nell'era del web e del digitale. Per dirla con semplicità: il segreto (e il bello) sta nella condivisione e nella "proprietà collettiva" delle immagini a livello estetico, ma anche sociale e, infine, politico. Una colossale impresa enciclopedica come Wikipedia rappresenta un modello assolutamente rivoluzionario di diffusione e condivisione del sapere, solo per fare l'esempio più "universale".  Potrebbe mai, un centro culturale che si pretendesse "moderno e contemporaneo" giocare la comunicazione delle proprie iniziative senza prendere in considerazione - quantomeno - l'insieme (e la rete) degli avvenimenti che intelaiano - componendosi e interlacciandosi, almeno idealmente - il Sapere di una molteplicità di soggetti?

Michela Ongaretti
Michela Ongaretti - schermata da alcuni post per il blog  Milano Arte Expo
Senza farla lunga, l'occasione determinata dai Fuorisalone a Milano e, ancor di più, da Expo 2015 ha reso gradevole, utile, e interessantissimo, l'inserimento nel magazine aperto da Francesco Tadini Milano Arte Expo di una grande cultrice delle arti e del design qual'è Michela Ongaretti. Il primo post di Michela ha riguardato proprio il design: il marchio made in Italy Stilnovo. Con l'inizio, poi, dell'Esposizione Universale 2015 la Ongaretti ha contribuito con una serie di pezzi scritti "da dentro": abbiamo potuto giovarci della sua presenza e del suo lavoro per uno stand di Expo per facilitare - e Michela non ha perso occasione! - i contatti con gli uffici stampa dei grandi e / o migliori Padiglioni e, in seguito, anche numerose interviste e articoli documentatissimi sui progettisti, architetti, designer e comunicatori che hanno reso l'estate milanese del 2015 assolutamente indimenticabile.

Non resta che augurarvi di poter incrociare, nelle Vostre attività di comunicazione, il professionismo di Michela Ongaretti e lasciarvi - la scorpacciata è consistente - alla lettura di tutti i suoi testi. > Questo è il link ai post di Michela per Milano Arte Expo.

Omero, Iliade e Odissea: chi è Nestore?

Nestore
Iliade e Odissea, chi è Nestore?
Omero, Iliade e Odissea: chi è Nestore? È una di quelle figure di fama molto antica, sia nella letteratura che nel mito. Nestore era già familiare ai greci quando Omero lo introdusse nell'Iliade. Anzi Nestore, nel corso del poema, narra in ripetute occasioni episodi della sua vita passata che altri poeti avevano già trattato e incluso nelle loro opere. Queste leggende si ambientavano nel Peloponneso e, per l'esattezza, a Pilo. Il riferimento era a guerre che quella popolazione aveva sostenuto contro popoli confinanti.
Al tempo della guerra di Troia Nestore ha già conosciuto altri popoli e altri paesi: era anziano e molto esperto. Così è descritto da Omero: "Nestore dalla dolce parola, l'oratore dalla voce sonora di Pilo; dalla bocca di lui scorrevano accenti più dolce del miele. Egli ha già visto trascorrere due generazioni di mortali che un tempo con lui sono nate e cresciute nella divina Pilo, e ora regna sulla terra". Nestore porta quella che potremmo definire la voce dell'antica saggezza nell'esercito greco – quando interessi individuali o passioni giovanili ne minacciano la stabilità e l'unità. Già nel primo canto Nestore fa valere la sua posizione fra Agamennone, investito dell'autorità suprema ma costituzionalmente poco ben definita, e Achille, forte della propria origine divina e della indiscutibile superiorità di combattente.
Il valore della saggezza viene affermato senza avere il primato, in un mondo in cui la capacità fisica è assolutamente decisiva. Nell'Iliade l'ultima parola spetta sempre ad Achille, ma anche i consigli di Nestore hanno diritto al rispetto e impongono attenzione. Essi servono a decidere i casi particolari, le situazioni incerte in cui l'esperienza conta maggiormente.
Si sono voluti vedere in Nestore anche i difetti dell'età avanzata, dato che i suoi numerosi suggerimenti non sono sempre efficaci, e data anche la tendenza a parlare spesso di sé e della sua vita passata. Ma questo preteso umorismo ironico in realtà non c'è, nonostante che l'Iliade parli maggiormente dei personaggi che con Nestore sono in contrasto.

I consigli di Nestore non hanno efficacia quando pretendono di risolvere la grande contesa tra Agamennone e Achille, e questo perché essi non valgono per la nuova logica personale con la quale Achille tende a creare nuovi diritti. Tuttavia nei riguardi di Agamennone, che rappresenta il vecchio potere legale, fondato su patti addirittura divini, la voce di Nestore a un pieno e totale valore.

Verso la fine dell'Iliade i suoi insegnamenti si limitano invece a questioni di capacità tecnica, strumentale, che però riporta sempre agli accorgimenti di una più vasta esperienza. Nelle gare del canto XXIII suo figlio Antiloco partecipa alla corsa dei carri, e Nestore lo consiglia: "con l'accorta abilità, più che con la forza, è migliore lo spaccalegna; con l'abilità il pilota guida sul mare la nave squassata dai venti, e l'abilità l'auriga supera gli altri".

Nell'Odissea Nestore è tornato alla pace domestica, a Pilo, dov'egli accoglie Telemaco. Qui racconta al figlio di Ulisse la vendetta di Oreste su Egisto, l'uccisore di Agamennone. Telemaco capisce il suggerimento e si prepara all'azione e alla vendetta sui Proci.

Dafne e Apollo: il mito dell'amore irrisolto e non realizzato

Apollo e Dafne
Apollo e Dafne, di Paolo Veronese
Dafne e Apollo: il mito dell'amore irrisolto e non realizzato. Chi era Dafne? Un personaggio notissimo del mondo poetico classico, tra quelli a godere di maggior fama in tutte le età, a partire, particolarmente, dall'età ellenistica. Tuttavia, come accade spesso la rielaborazione che il personaggio e le sue gesta subirono durante le varie età rende difficile la sua ricostruzione storico-poetica. Dafne pare abbia avuto tre localizzazioni. Arcadia (fiume Ladone), Laconia (ad Amicle) e Tessaglia (fiume Peneo). La vera origine però è da cercarsi in Arcadia, anche se la tradizione letteraria si impadronì di tutte e tre le versioni, spesso producendo delle contaminazioni. Il carattere inconfondibile e costante è la scontrosità all'amore e la giurata verginità, in contrasto assoluto con la sua bellezza smagliante, tale da fare di Apollo un'insistente e appassionato amatore. Votata al culto di Diana, e quindi provetta cacciatrice, il dio si invaghì di lei talmente che la inseguì infaticabilmente in una folle corsa: sul punto di essere raggiunta Dafne invocò il padre Peneo perché la mutasse in albero per sottrarsi alle brame divine. Sul luogo sorse improvvisamente l'alloro, che Apollo al suo proprio culto consacrò in memoria perenne del suo primo – anche se vano – amore.

Dafne
Apollo e Dafne (1688-90), di Jacob Auer
Così narra Ovidio nel primo libro delle Metamorfosi, e questo è il racconto più completo che possediamo, per quanto già contaminato dalla tradizione precedente. Dafne è il simbolo della verginità che si sacrifica in olocausto di sé, come completamento della bellezza, prerogativa di una "vera femminilità", che acquista il suo massimo pregio quando diviene non conquistabile. Sotto questo aspetto il mito di Dafne interessò di ellenisti e i Romani, cantori dell'amore insoddisfatto e dolente, espressione di una intellettualità estetica che trova il suo completamento della contemplazione del proprio dolore o nel rimpianto. E su antichissimi resti di primitive religioni fiorì la figura di Dafne-alloro, con i suoi motivi fondamentali: l'inseguimento del dio, la metamorfosi in alloro, la verginità e l'amore alla caccia al servizio di Diana.

Questi elementi furono consacrati alla poesia – e di cui passarono tutta la tradizione culturale antica, comprese le arti decorative – da un poeta ellenistico, che, probabilmente anche nelle situazioni, oltre che nell'azione, servì da modello pure a Ovidio (anche se non sappiamo in che misura) e non fu ignoto a Nonno, che sovente nelle sue Dionisiache commemora la triste sorte della vergine. Contaminazione della saga apollinea è la favola di Elide, secondo la quale Leucippo, invaghitosi della fanciulla, per raggiungerla indossò abiti femminili a ciò consigliato da Apollo, geloso di lui e deciso a rovinarlo; ma costretto al bagno nel fiume e scoperto dalle vergini compagne fu trafitto dai loro stessi archi. Di questa tradizione, messa in versi dal poeta Diodoro Elaite, non possiamo dire altro che presenta i segni di una quasi sicura posteriorità dell'azione e nella situazione, pur rimanendo incerti i rapporti con la tradizione antica.

sabato 13 agosto 2016

Spazio Tadini, Ferragosto 2016 a Milano per una nuova stagione di mostre e idee

Spazio Tadini, Ferragosto 2016 a Milano per una nuova stagione di mostre e idee. Francesco Tadini e Melina Scalise restano fedeli alla città. Restano in via Jommelli 24 per ultimare i lavori di ristrutturazione degli spazi dell'Associazione Culturale. Si riapre il 15 settembre (con la preview stampa) e il 16 per l'inaugurazione di una grande mostra internazionale di fotografia. Anzi: un premio. E' l'espozione promossa dalla World Photography Organisation: quella del più grande premio fotografico al mondo: il Sony World Photography Awards. Saranno in mostra opere di ogni genere fotografico, spaziando dalla fotografia commerciale a quella di viaggio al fotogiornalismo, con una moltitudine di soggetti che spaziano dal ritratto allo sport all’architettura, ognuna selezionata fra le 230.000 fotografie inviate quest’anno da ben 186 Paesi. Lo scorso aprile la mostra dei Sony World Photography Awards 2016 è stata ospitata presso la Somerset House di Londra. Fino a oggi è stata presentata in India, Germania, Cina, Giappone, Australia, Francia, Russia e Stati Uniti.

Si ricorda che sono aperte le iscrizioni per i Sony World Photography Awards del 2017, giunti quest’anno alla loro decima edizione.

Approfondimenti su www.worldphoto.org.
Per ulteriori informazioni, contattare:
Cristina Papis – e-mail: sony.pr@eu.sony.com
Sony Europe Limited, Sede Secondaria Italiana – Via Rizzoli, 4 – 20132 Milano
Tel: 02-618.38.1

Per maggiori informazioni sui Sony World Photography Awards, contattare:
Jill Cotton, PR Director / Kristine Bjørge, PR Manager
press@worldphoto.org / +44 (0) 20 7886 3043

World Photography Organisation
La World Photography Organisation è una piattaforma internazionale a sostegno di iniziative legate al mondo della fotografia. Con attività che coprono più di 180 paesi, il nostro scopo è elevare il livello del dibattito sulla fotografia, dando visibilità ai migliori scatti e fotografi del globo. È per noi un punto di orgoglio saper costruire legami duraturi sia con i fotografi sia con i nostri partner leader del settore a livello internazionale. Proponiamo un ricco calendario di eventi annuale che comprende i Sony World Photography Awards (il più grande concorso fotografico al mondo che festeggerà il 10° anniversario nel 2017), diversi appuntamenti e incontri locali e internazionali, e PHOTOFAIRS, mostre d’arte internazionali dedicate alla fotografia con destinazione Shanghai e San Francisco. Per maggiori dettagli, visitare http://www.worldphoto.org

Sony Corporation
Sony Corporation è un’azienda leader nella produzione di apparecchiature audio, video, imaging, gaming e di Information & Communications Technology destinate al mercato consumer, alle aziende e ai professionisti. Grazie alle divisioni musica, cinema, computer entertainment e online, Sony si posiziona a pieno titolo quale azienda di elettronica e di intrattenimento leader a livello mondiale. Sony ha registrato un fatturato consolidato di circa 72 miliardi di dollari nell’anno fiscale chiuso al 31 marzo 2016. Per ulteriori informazioni relative a Sony è possibile visitare il sito http://www.sony.net/

lunedì 13 giugno 2016

Francesco Tadini Milano: nuovo sito - articolo sull'artista Gianfranco Pardi

Francesco Tadini - articolo su Gianfranco Pardi
Francesco Tadini ha il nuovo sito internet da visitare: http://francescotadini.it/ . Recentemente è stato pubblicato un post su una mostra a Milano presso Studio Marconi del 1983. Ecco l'inizio del testo di Pardi per quell'esposizione in via Tadino 15 nella storica galleria:  Poiché tutto muore poiché tutto è più breve della parola e del labbro che vuole pronunciarla, poiché tutto si frantuma oltre il suo orlo, tanto profondamente lo dilata la mescolanza…” (G. Benn, 1916)
Queste parole di Benn contengono forse tutto il senso del tragico sconvolgimento che la struttura del discorso ha subito nella cultura di questo secolo. Questa frantumazione, questa perdita dell’integrità, hanno una corrispondenza nel ribaltamento del concetto di spazio messo in atto dalla pittura dell’Occidente moderno.

La dicotomia mostrare dire e consumata in questo spazio. La pittura scava fino al vuoto, mostra questo errare in territori sconosciuti e si mostra, silenziosa, senza pudore, espone nuda la propria afasica presenza.

Zeitgeist.

In fondo c’è qualcosa di nostalgicamente premoderno in molte delle poetiche “postmoderne “; il desiderio di credere in un uomo integro che guarda (da quel “punto ragionevole ” che figura appunto la razionalità premoderna) un mondo intero.

Così la coscienza della crisi di tutti i valori, che ha segnato la nostra epoca, si trasforma nel suo paradossale contrario, una specie di assunzione acritica della crisi come “tutto il valore”.

Si può dire che l’interpretazione della pittura è “interminabile”, indefinita e infinita, l’opera non ha un rovescio.
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continuate a leggere al link del blog appena nato di Francesco Tadini!